Vipassana: la meditazione di consapevolezza
Nel precedente articolo, dedicato al legame tra meditazione e salute (link), avevo annunciato che avrei dedicato uno spazio a parte all’approfondimento di quella che è la pratica che ho scelto di seguire: la vipassana o meditazione di consapevolezza. Questo, non perché la ritenga superiore o migliore di altre, ma solo perché è quella che meglio mi si confà, con l’augurio ad ognuno di voi di incontrare quella più indicata e nella quale riconoscervi.
Quando parlo di meditazione è bene sapere che non parlo di un’attività curiosa o esoterica o un’attività che si fa per rilassarsi o per andare in trance, indicata solo per i santi o persone particolarmente spirituali (ben diverse dall’uomo comune), come nella cultura popolare a volte si pensa.
Come scrive Jon Kabat Zinn, quando si parla di meditazione si intende semplicemente essere presenti a se stessi, approfondire la propria autocoscienza. La meditazione diviene, così, il processo finalizzato ad approfondire attenzione e consapevolezza.
Le parole sono importanti e bisogna usarle a ragion veduta, intendendosi bene sul significato da attribuirvi, in modo rispettoso. A proposito della parola “meditazione”, tutte le culture presenti sulla terra sin dall’inizio dei tempi hanno prodotto una qualche forma di pratica mentale assimilabile alla meditazione, con tecniche molto diverse tra loro che sarebbe impossibile anche solo tentare di analizzare in modo completo.
Nella tradizione giudaico-cristiana, per restare su un orizzonte culturale a noi più vicino, incontriamo due pratiche denominate preghiera e contemplazione. La preghiera intesa come un rivolgersi direttamente a un’entità spirituale; la contemplazione come tempo prolungato di riflessione cosciente su un argomento specifico: un brano delle scritture o altro. Entrambe queste pratiche sono un esercizio di concentrazione con il risultato finale di aumentare la calma profonda e di portare una sensazione di pace e benessere.
Altre forme di meditazione, quale ad esempio quella yogica, sono tese alla concentrazione: si concentra l’attenzione su un unico oggetto (sia esso una sillaba, il respiro, la fiammella di una candela o altro) senza permettere alla mente di divagare. Successivamente, con l’approfondirsi della pratica, si aggiungono alla meditazione oggetti più complessi, ma l’aspetto della concentrazione rimane sempre il dominante.
Anche all’interno della tradizione buddista la concentrazione è tenuta in elevata considerazione. Tuttavia un nuovo elemento viene introdotto: la consapevolezza. La meditazione buddista mira allo sviluppo della consapevolezza, utilizzando a tale scopo la concentrazione.
La tradizione buddista è assai vasta e comprende molteplici tradizioni che, attraverso vie differenti, mirano a raggiungere il medesimo scopo. La meditazione zen, ad esempio, usa due approcci distinti: uno prevede un’immersione diretta nella consapevolezza grazie alla propria forza di volontà. Ci si siede sul cuscino e si allontana dalla mente qualsiasi altra cosa che non sia la pura consapevolezza di essere seduti. Un secondo approccio, invece, utilizza un escamotage per aiutare la mente ad entrare nella pura consapevolezza trascendendo il pensiero cosciente: al meditante viene consegnato un indovinello irresolubile che è però tenuto comunque a risolvere. In questo modo si crea una situazione intensa e difficile che porta il praticante ad abbandonarsi alla pura esperienza del momento.
E ancora si potrebbe continuare, ma veniamo alla meditazione vipassana che è forse la più antica tra le pratiche buddiste. Il metodo di questa pratica viene direttamente dal Satipatthana Sutta, un discorso attribuito al Buddha stesso.
La vipassana è la coltivazione diretta e graduale della consapevolezza o presenza mentale. Per approfondire questa presenza, il meditante viene invitato ad osservare sempre più accuratamente e sempre di più il flusso di esperienza della sua stessa vita attraverso esercizi gentili, amorevoli, ma molto accurati che mirano ad accrescere la capacità di usare attentamente tutti i nostri sensi e la nostra mente.
Con la vipassana impariamo a toccare attentamente, a gustare attentamente, a guardare, ascoltare, odorare intensamente e con attenzione. Impariamo, soprattutto, a riconoscere gli automatismi della mente e come questi ci catturino in un meccanismo di reazione che è alla base della nostra sofferenza.
Scopo della vipassana è imparare a vedere la verità della natura impermanente, insoddisfacente e senza sostanza dei fenomeni. Si tratta di un cammino di “disvelamento” che ci conduce ad osservare le nostre esperienze nel momento stesso in cui avvengono per renderci conto di ciò che sta realmente accadendo dentro e fuori di noi, per comprendere che tutto è eterno mutamento e movimento. In questo modo la realtà acquisisce una ricchezza incredibile, impossibile da descrivere a parole, che va solo esperita.
Con la vipassana coltiviamo un modo speciale di guardare la vita e chiamiamo “consapevolezza” questo modo particolare di percepire. Noi siamo, infatti, solitamente convinti di guardare la realtà che ci circonda e di vederla esattamente com’è; in verità non è proprio così. Noi la guardiamo attraverso una serie di lenti che la distorcono, attraverso schemi mentali, concetti, paure o altro che ci vengono dalla nostra cultura, dalla nostra storia, dalle nostre sofferenze passate restandone catturati e reagendo, invece di agire, tentando di fuggire dal dolore e perseguendo il piacere. Rimaniamo talmente catturati dal flusso di questi pensieri che la vita ci passa davanti senza che ce ne accorgiamo.
Certo, ogni tanto qualche indizio ci segnala che c’è qualcosa che non va: un’inquietudine che non va mai via, un sintomo fisico, la ricerca di un senso che non riusciamo a trovare. Se siamo bravi cogliamo questi segnali e cerchiamo una via, ma più spesso li ignoriamo continuando a lottare contro il dolore e le cose spiacevoli, nel disperato tentativo di far durare quelle piacevoli, seppellendo le nostre paure e aggrappandoci a ciò che ci gratifica.
Con la meditazione vipassana impariamo a superare l’impulso che ci spinge su sentieri conosciuti, dove ci sentiamo tutto sommato a nostro agio (pur continuando in realtà a soffrire), e a tuffarci nella realtà, quale essa è.
La cosa interessante è che non si tratta di abbracciare alcuna fede, non si tratta di “credere” che questo avvenga, si tratta solo di “fare esperienza” di ciò attraverso la pratica. Si tratta di mettere in pratica un metodo per rimanere in contatto con la pienezza del nostro essere grazie ad un processo sistematico di osservazione, indagine personale e azione consapevole, il tutto accompagnato costantemente da una grande amorevolezza, prima di tutto verso noi stessi.
Per comprendere appieno la vipassana però sarebbe necessario avere almeno alcune informazioni di base sui punti fondamentali della filosofia buddista. Invito perciò ad approfondire personalmente l’argomento tramite la lettura dei libri dei già citati Corrado Pensa, Jon Kabat Zinn, Tich Nhat Han, Henepola Gunaratana, Ezra Bayda, Rigdzin Shikpo, Sharon Salzberg, o le interviste e conversazioni con il Dalai Lama che si possono facilmente trovare sia in libreria che su internet.
In un prossimo articolo cercherò molto sinteticamente di tratteggiare almeno i fondamenti della filosofia buddista su cui la vipassana si fonda, senza la benché minima pretesa di farne una presentazione completa. Quel tanto che basta per incuriosire e spingere ad approfondire l’argomento su testi di spessore ben maggiore di questi.
Successivamente l’intenzione è quella di chiarire la relazione esistente tra meditazione vipassana e mindfulness, oggi molto “di moda” e per questo a rischio elevato di inquinamento e travisamento.